Testimoniare come ho affrontato e continuo ad affrontare il peso del mio trauma, mi induce a ripartire da quel giorno.
Ho perso Iacopo, mio fratello maggiore, in un incidente stradale.
Era venerdì 23 settembre 2016.
E da allora, quel giorno non è più un giorno come gli altri. È il giorno che mi riporta nel posto in cui tutto è finito e tutto è iniziato, e come uno spartiacque, ha segnato per sempre la mia vita e quella della mia famiglia. È il giorno in cui ho dovuto dire addio a mio fratello nel peggiore dei modi.
Ho detto addio diverse volte alle persone cui tenevo. Vedere andare via chi si ama, qualsiasi ragione essa sia, è sempre un’esperienza dolorosa a cui non ci abituiamo mai. Ma questo, credetemi, è stato il modo più atroce che la vita potesse riservarmi. Ricordo che i primi pensieri e i primi timori che mi hanno accompagnata da quel momento, sono stati quelli con cui ho dovuto combattere per tanto, tantissimo tempo.
Quando una persona ci viene strappata con tale forza e violenza, la nostra mente si mette al riparo dalla tempesta e lo fa appellandosi ai ricordi. Non poter ricordare neanche l’ultimo momento in cui io e mio fratello abbiamo parlato e di cosa, o ci siamo salutati, sfiorati, è forse una delle cose che non perdonerò mai alla mia memoria. Poter custodire l’ultimo momento condiviso con quella persona, colma quel bisogno di sentirla un po’ più vicina, di poterla collocare nel tempo più recente possibile, perché non rimane nient’altro che questo.
Sopravvivere a chi non c’è più è faticoso. I sensi di colpa mi hanno accompagnata per tanto tempo. Il senso di colpa per il timore di non averlo amato abbastanza, il senso di colpa di non essere stata la sorella perfetta e di poter fare di più, il senso di colpa di essere ancora viva, di poter ancora sognare, ridere, guardare un tramonto, stare con i propri cari e con gli amici. La paura di dimenticarlo, di non ricordare la sua voce o il suo volto mi tormentava. Credo che ognuno di noi abbia un’essenza, quella parte più pura e profonda della nostra identità, che è solo nostra e identica a nessun altro. La paura di perdere la sua essenza mi divorava. Il 23 settembre è stato il giorno in cui ho dovuto iniziare il più difficile percorso dentro me stessa, al buio e col cuore sanguinante.
A 18 anni mi sono ritrovata catapultata in un mondo sottosopra, dove nulla era uguale a prima.
Non era il mio mondo, o almeno non quello di cui avevo fatto parte sino ad allora, ed io non ero più io.
Se esistono le ustioni dell’anima, la mia era stata completamente ustionata dal dolore e anche il più piccolo raggio di sole era insopportabile. Vivere il trauma vuol dire sentirsi strappati dalla propria stessa vita, vuol dire esistere senza sentirsi completamente vivi, vuol dire vivere in un mondo in cui il tempo non scorre come per gli altri. Crollano anche le più piccole certezze e tutto sembra avvolto da un alone di incomprensione, tutto sembra ovattato come quando ci si rialza dopo una violenta esplosione: barcollando a fatica, senza senso dell’orientamento e senza sapere dove si sta andando. Questi vissuti, cui adesso riesco a dare un ordine attraverso le parole, hanno preso il posto dell’Aurora di sempre, che credevo fosse ormai un ricordo lontano ed in parte è così.
Quando facciamo esperienza del dolore più profondo, perdiamo il contatto prima con noi stessi perché non ci riconosciamo più, e poi con gli altri perché non ci capiscono. La sofferenza è qualcosa a cui non siamo abituati, da cui cerchiamo di rifuggire con tutte le nostre forze e purtroppo, la cultura in questo ha la sua dose di responsabilità.
Oggi, grazie anche al mio percorso di studi in psicologia, ad una consapevolezza e maturità maggiori riesco a dare una spiegazione a quelle reazioni che mi facevano apparire ai miei stessi occhi come se stessi letteralmente perdendo la testa. Anche solo alzarsi dal letto era una sfida, perché sapevo già con cosa avrei dovuto fare i conti. Passare dall’essere una studentessa che a scuola si è sempre impegnata, a non aver più la concentrazione per comprendere, memorizzare e svolgere i compiti più banali era per me un fallimento. E di certo studiare non rientrava più tra le mie principali priorità di vita. Si era tutto dissolto in quell’esatto momento, svanito. Era il quinto anno, l’anno degli esami di stato ed io temevo di essere bocciata. Purtroppo, non tutti i professori compresero la situazione e con loro anche gli amici. La gente che fino a quel momento aveva fatto parte della mia vita mi aveva delusa. Era scomparsa ed io mai come allora mi sono sentita così abbandonata e non meritevole d’amore. Chi mi aspettavo si sarebbe fatto avanti è sparito perché spaventato dalla stessa situazione, e altri, invece, hanno trovato il coraggio di sedersi accanto a me e abbracciare il mio dolore in silenzio, sotto una pioggia di meteoriti e senza ombrello. Quelle persone sono state davvero poche ma è a loro che devo l’avermi fatto da specchio quando io non mi riconoscevo più.
Qual è la cosa di cui avrebbe avuto più bisogno di sentirsi dire l’Aurora di cinque anni fa? Avrei voluto sentirmi dire che quello che stai vivendo è NORMALE. È normale sentirsi in colpa, non riuscire a dormire o dormire troppo, mangiare troppo o troppo poco, trascurarsi, non avere più interesse per nulla, non riuscire più godere della presenza degli altri, perdere fiducia negli altri, non riuscire a concentrarsi, non riuscire a ricordare eventi del passato. Avrei voluto sentirmi dire che è normale sentirsi continuamente iperattivati, esplodere per poco, sentirsi danneggiati, brutti e marci dentro. È normale sentirsi rotti, è una fase. Sono reazioni fisiologiche a una situazione anormale e che per questo vanno rispettate.
In una società in cui il metro di valutazione è la performance, tutti si aspettano e pretendono che tu reagisca sin da subito, che tu continui a correre la maratona della vita con il cuore amputato.
La possibilità di fermarti non è contemplata e se accade, sono pronti a giudicare, a colpevolizzarti, perché tanto è “tutto nella testa”. Questo purtroppo non fa che rimarcare la distanza che si avverte tra sé e il resto del mondo.
La buona notizia è che non è “tutto nella testa”, non è questione di carattere o di essere più o meno forti. Questo alimenta soltanto la convinzione di sentirsi sbagliati. Persino studi scientifici hanno dimostrato che anche il nostro corpo cambia dopo un’esperienza traumatica ed è questo il motivo per cui alcune situazioni successivamente risultano così impattanti e poco tollerabili. Il sistema nervoso non risponde più allo stesso modo e parti anatomiche del nostro cervello, soprattutto quelle deputate all’elaborazione delle emozioni e della paura, risultano addirittura cambiate nella struttura.
Per quanto la volontà di uscirne sia importante, non possiamo non tener conto di questo.
Intraprendere un percorso di psicoterapia, è quindi imprescindibile per ripristinare circuiti cerebrali alterati.
Ci hanno abituati a nasconderci se piangiamo, a vergognarci se soffriamo, a soffocare le espressioni di dolore, a credere che se lo si fa, è per esibizionismo o per ricevere pietà.
La verità è che la vita non è scevra dal dolore e che le esperienze negative, nella stessa misura di quelle positive, vanno condivise, con un riconoscimento in più: quello di essere riusciti a sopravvivere alla forza soverchiante del trauma.
Per cui date voce al dolore. Come dice Shakespeare in un passo di Macbeth a cui sono molto affezionata “Date parole al dolore: il dolore che non parla mormora al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi”.
La stigmatizzazione del dolore ci rinchiude in una doppia gabbia: quella primaria del dolore e quella della vergogna di poterlo esprimere. Facciamo fatica ad accettare che sia successo, perché farlo equivale a riconoscere di essere impotenti di fronte a eventi che esulano dalla nostra capacità di controllo e su cui non abbiamo alcuna responsabilità.
La mia vita dopo aver perso mio fratello è cambiata. Quello squarcio nel cuore è un fardello che porterò con me per sempre e con cui giorno dopo giorno, imparo a convivere, perché è impossibile dimenticare. Ho imparato a percepire il mondo con una sensorialità diversa e a vederlo con una sensibilità che mi espone alla superficialità di chi non riesce a guardare oltre, ma anche a gioie profonde. Ho imparato a circondarmi delle persone che mi accettano per ciò che sono, in particolare per le mie fragilità e allo stesso tempo ho imparato a lasciar andare quelle che si sono presentate lungo il mio cammino e che egoisticamente si sono approfittate della mia vulnerabilità. Ho imparato a non fermarmi mai, a vivere per due, e a dedicare ogni mia vittoria a mio fratello, la persona che ha dato il senso più profondo e autentico alla mia vita.
Mai nessuno ci dice che per superare il dolore bisogna passarci attraverso, bisogna starci, rimanerci, che la strada non è definita e che somiglia piuttosto a un labirinto percorso al buio e senza una bussola. Non ci sono scorciatoie, soluzioni immediate, formule matematiche o medicine. Certo, queste ultime possono aiutare nel periodo più acuto, ma il senso della vita andrà sempre ricostruito a partire da noi stessi, e questo richiedete tempo, cura, amore. Il trauma ci lascia abbandonati in un oceano di dolore in cui non si sa nuotare: ogni tentativo di opporci ad esso, sarà vano, sfiancante e frustrante.
Abbandonarsi, invece, al movimento delle onde per lasciarsi trasportare, sarà l’unico modo che ci consentirà di tenerci a galla e raggiungere la riva, per ritrovare noi stessi ad aspettarci e imparare gradualmente a riconoscerci anche in uno specchio rotto e ad apprezzare quelle linee di frattura che ci rendono anime speciali.
Aurora Di Bari 24 anni