Qualche tempo prima del Natale 2023 mi è arrivata dalla prof.ssa Valeria Gentile di Roma della Dramateach, con la quale abbiamo già collaborato in passato, la lettera di una ragazza che, a partire dal libro di Antonella, mi ha posto tante domande. Ho provato a rispondere come avrei risposto ad Anto, se me ne avesse dato l’opportunità. La condivido anche qui sperando possa contribuire a dare un diverso punto di vista.
Indice
La lettera
“Ciao Domenico.
Ho 19 anni e mi sento persa, mi sento diversa da tutta la gente che mi circonda. Mi sento “strana” rispetto ai miei colleghi, rispetto ai miei amici.
Sono un’amica pessima, egoista. Sono un’anima solitaria. E anche io, come Antonella, “amo il silenzio in un mondo che non smette mai di far rumore”. In un mondo che, ora come mai, mi sembra girare troppo velocemente e la frenesia della gente sembra travolgermi, mentre io sono ferma nei miei pensieri e nelle mie paure.
Allora cerco di guardare alla Bellezza che abita il MIO mondo. Per consolarmi.
Ciò nonostante, a volte le difficoltà prendono il sopravvento e mi sembra di sprofondare, mi sembra di non sentire la terra sotto i piedi. In quei momenti, mi siedo sul letto, prendo il libro di Antonella, leggo le sue parole nelle quali mi ritrovo estremamente e allora mi commuovo, piango pensando a quanto sarei stata felice se avessi conosciuto Antonella, se ci avessi parlato. Allora mi dico che devo raggiungere i miei sogni e devo farlo anche per Antonella perché, se pure non la conoscevo, la porto con me dentro al cuore.
Da piccola mi dicevo che “da grande” sarei stata meno strana. No, da grande sono la stessa cosa. Sono le stesse paure e la stessa stranezza e gli stessi pensieri. Per cui lo sarò anche da adulta. E da adulti come si fa? Fa paura? Come si fa a sopportare questa stranezza e questa pesantezza di pensieri? È possibile farlo in un mondo che corre, che non aspetta il più debole, che non accetta il diverso? È possibile essere alternativi, extra-ordinary, in una società che segue la massificazione pur rendendosene conto? In una società che promuovendo il diverso si omologa ai più? Da adulti queste cose passano? O pesano ancora?
Da adulti si crede ancora nelle passioni?
Alessandro D’Avenia nel suo libro “L’arte di essere fragili” scrive: “Valere la pena. […] È quella di chi ha trovato per cosa sia accettabile dare il proprio tempo e il proprio spazio, ovvero “morire”.
Lessi per la prima volta questa frase in periodo in cui avevo perso “la pena”, un periodo in cui credevo di non aver nulla da dare al mondo, mi sentivo io una pena per il mondo. Mi sentivo quella strana. Non c’era nulla che mi desse la voglia di alzarmi dal letto la mattina, se non la monotonia dei giorni. Era il periodo del Covid… eppure sentivo un desiderio nel petto che mi obbligava a darmi al mondo, a darmi alla vita: è stato quello a tenermi accesa. Una passione.
Ma come trovare questa passione? Come trovare qualcosa per cui valere la pena e non essere solo una macchina senza cuore? Come fare a trovare quella cosa a cui dare “tempo e spazio”? Come trovare quella motivazione così forte a tal punto da esserne risucchiati? A tal punto da non farti vedere lo schifo generale?
Come fare a mantenere questa passione e questa motivazione anche da adulti? È possibile fare di questa passione un’arma contro il dolore e gli insuccessi?
Perché il dolore mi fa paura. Fa paura in un mondo che ostenta felicità e spensieratezza.
E l’insuccesso mi fa paura. Fa paura in un mondo che è una continua gara verso un traguardo inarrivabile.
E allora come accettare tutto questo? Come potersi consegnare al dolore senza la paura di annegarci dentro?
Come superare l’insuccesso senza permettergli di ostacolarti? Basta una passione?”
La mia risposta
Cara ******,
Inizio con un grandissimo grazie, grazie per il tuo portare Antonella dentro al cuore, e per renderla uno dei motori della tua azione. Non avrei potuto desiderare di meglio, quando ho consegnato i piccoli appunti di Anto a chi lo ha trasformato nel suo libricino.
Ma passiamo a noi. Mi fai tante domande, a me che normalmente negli incontri esordisco dicendo che ho più domande che risposte, e quindi capirai come oggi mi metti in una situazione piuttosto complicata! Cercherò di darti il mio punto di vista, che immagino sia quel che vuoi perché certamente sai che non sono la persona giusta per analisi psicologiche, sociologiche o scientifiche.
Parto dalla fine. Il dolore e l’insuccesso ti fanno paura, dici, ti fa paura vedere il mondo com’è e trovarlo molto al di sotto delle tue aspettative. Come trovare qualcosa che mi salvi, che ci salvi, mi chiedi?
Io penso che dovresti, dovremmo, spostare l’attenzione su un altro aspetto e cambiare la domanda.
Non credo infatti che ci sia qualcosa che ci possa salvare, non credo che esista una motivazione, una passione così forte da guidarci e spingerci sul nostro personalissimo mare di dolore per impedirci di naufragare ed affogare. E penso che, con la dovuta e fortunata eccezione di casi particolari, cercare questa passione possa anche diventare frustrante e contribuisca ad aumentare, ingiustamente, un senso di inadeguatezza.
Una passione potrebbe certamente aiutare, non dico di no, ma non credo sia LA soluzione.
Quel che penso è che sia assolutamente necessario invece venire a patti con la nostra umanità. Con il dolore, l’insuccesso, l’impopolarità, lo sbaglio. Non cercare un “arma” contro il dolore, ma abbracciarlo come parte essenziale della nostra vita, la necessaria faccia oscura del benessere.
È la fragilità che ci fa umani, e cercare un’arma che ci liberi dalla nostra umanità, beh, converrai che non sembra proprio una brillante idea.
La mia esperienza è questa: dal dolore, qualsiasi dolore, non c’è modo di scappare. La paura di annegare in quel mare ti trattiene sulla riva, lo capisco, ma è necessario affrontarla.
Non c’è altro modo di superare il dolore, ed eventualmente anche conviverci, se non nuotandoci dentro.
E se non ce la fai, o ti sembra di non farcela? Se, come me, dopo due bracciate sei stanca?
Qui passo a quello che mi sembra il secondo punto essenziale che sollevi, la paura dell’insuccesso e del fallimento. Tu stessa individui bene come questa paura sia generata da una società che, anche se vorremmo spesso credere il contrario, ci condiziona pesantemente. La massificazione, la paura del diverso, l’ostentazione di felicità e spensieratezza, la corsa verso traguardi inarrivabili, la “vetrinizzazione” delle nostre vite.
Io penso che, nel coraggio di affrontare il dolore, dobbiamo includere (pacchetto completo!) il coraggio di mostrarlo, di parlarne. È difficile, è impegnativo, forse chiedere aiuto e mostrarsi come si è davvero è la cosa più difficile in assoluto, ma è necessario. È necessario dire no all’omologazione che ci vuole privi di dolore, per essere fedeli a noi stessi, per vivere davvero.
Ma insomma che scenario ti ho dipinto! Sembra cupo e difficile, proprio come dici tu: come si fa a sopportare questa stranezza e pesantezza di pensieri? Se la passione non è detto che ci sia, e se quando c’è potrebbe non essere sufficiente, da dove prendere la forza?
Curiosamente io ho trovato la risposta nella tua stessa lettera, una risposta che ha risuonato tantissimo con la mia esperienza, e che ha una importanza che, forse, hai sottovalutato: “Cerco di guardare la Bellezza che abita il mio mondo”.
Per me è tutto li.
Anche io sono “strano”, non c’è neanche una parola che definisca un papà che ha perso una figlia, men che meno se la figlia si è suicidata; anche io mi sento, molto spesso, capito molto poco, quando non per nulla; anche io vedo le “risate di carta” di cui parlava Antonella volteggiarmi intorno, e non le sopporto più, non sono più disposto a passarci sopra. Anche a me a volte sembra di camminare su un sottile strato di ghiaccio che può rompersi da un momento all’altro senza preavviso, o mi sembra che mi manchi la terra sotto i piedi, e che stia vivendo un lungo incubo senza risveglio.
Ci sono due cose che mi aiutano: la prima è provare a far qualcosa per tutti i ragazzi e le ragazze che come Antonella, e come te, si sentono estranee a questo tipo di società, “strane”, perché si sentano sempre meno sole. Non so se ci riesco, ma ci provo. Questa è la mia strada, ma ci sono innumerevoli modi per essere di aiuto, si tratta di cercare quello più adatto alla propria sensibilità.
La seconda cosa che mi dà sollievo e forza, che mi rende a tratti felice e desideroso di andare avanti è proprio riconoscere la Bellezza. Nelle persone che incontro soprattutto, sapessi quanta ne vedo nelle scuole, tanta a volte da sentirmi sopraffatto. Ma anche nel teatro, nei libri, nella musica, nella campagna dove cammino ogni giorno, nella famiglia, nei colleghi. Nel mare.
E ti confido che nella bellezza, che lei tanto inseguiva, mi sembra di ritrovare Antonella. Mi pare che in qualche modo ci unisca. Io non credo che lei stia lì appollaiata da qualche parte a guardarmi, ma non posso fare a meno di sentire, a volte, di fronte alla Bellezza, qualcosa che tradotto in parole assomiglia a “vorrei essere li con te”. È un dialogo, silenzioso ma non per questo meno “concreto”. La mente è molto strana, me ne sono fatto una ragione.
Insomma, si, è possibile essere “alternativi”: costa fatica, non è semplice, è una battaglia quotidiana alla ricerca di quel che può darci forza, di come accettare e convivere con la nostra fragilità e il nostro dolore, si impara continuamente ogni giorno per tentativi ed errori e purtroppo non ci sono ricette preconfezionate valide per tutti.
Ma credo ne valga la pena.
Ti auguro con tutto il cuore di trovare il tuo personalissimo modo, e ti mando un abbraccio.
Domenico
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
― Italo Calvino, Le città invisibili